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Immaginate di imbattervi – mentre scorrete con disinteresse nella vostra home di Instagram – in un video che ritrae un ragazzo pieno di sangue in volto, chiaramente scosso e seduto in una macchina piena di persone che si prendono gioco di lui. Il cameraman d’occasione si rivolge al ragazzo – pallido come un lenzuolo, oltretutto – con un tono canzonatorio, facendo lui domande come: “Dov’è il gangster che sei? Dov’è la tua sicurezza?”. La scena potrebbe essere idealmente estratta da un film che nel cast conta nomi alla Joe Pesci, quel genere pieno di stereotipi che ha come protagonisti malavitosi americani dal cognome italiano.
A discapito di quanto a primo impatto si possa pensare, il tutto è andato in scena a Barona, un quartiere milanese, dove due rapper – il cameraman Simba la Rue e il sanguinante Baby Touche – se le sarebbero date di santa ragione. La situazione conflittuale sarebbe viva ormai da mesi, ma fino a qualche giorno fa si erano limitati a rispondersi con la musica, senza mai arrivare alla violenza fisica.
Il mondo della cultura hip hop italiana sembrerebbe aver così varcato una soglia mai raggiunta prima e che nessuno avrebbe auspicato: una guerra tra gang, con dei rapper a fare da vessillo. La presunzione di un possibile scenario è dettata dal fatto che la risposta del gruppo di amici della vittima non si è fatta attendere e come riportato tramite i propri social, sono pronti per una spedizione punitiva.
È possibile considerare il tutto con una prospettiva totalmente diversa, più concreta, pensando questa situazione come l’ennesimo caso di violenza tra ragazzi poco più che maggiorenni, parte delle mitologiche baby gang, che affliggono la qualità della vita nelle metropoli.
Oltre il rischio creato per la sicurezza pubblica, episodi del genere non vanno che a rafforzare la tesi – dettata dall’ignoranza in materia – per cui il rap sia sinonimo di violenza. L’Italia non ha mai digerito nemmeno la violenza lirica, presente nella maggior parte dei testi e trovare in prima pagina questioni di rapper invischiati nella microcriminalità, non fa che accrescere la diffidenza di molti. Questo scetticismo spesso è “imposto” dal comune retaggio culturale, che porta a giudicare certi generi come nocivi o pericolosi, specie per il pubblico di una fascia di età relativamente bassa.
Per risolvere il “problema” andrebbero eradicati molti luoghi comuni, come il fatto che i rapper siano generalmente criminali o – l’esempio per antonomasia – che il rap venga ascoltato pressoché solo nelle periferie, avendo poi una forte influenza sulle scelte, definite dal pensiero di massa come sbagliate, che in seguito verranno prese dall’ascoltatore.
Il rap non è criminalità, ma potrebbe parlarne, così come di tanti altri argomenti: è uno strumento di denuncia sociale e una valvola di sfogo, perché dà la possibilità di raccontare di sé in modi mai riusciti prima. Se poi si associa questo genere a un ambiente di periferia è perché la cultura hip hop – di cui il rap è parte integrante – viene vissuta a pieno in quelle situazioni dove la difficoltà della vita è esasperata, complice anche il poco intervento sociale adoperato, per cui molte persone finiscono per essere abbandonate a se stesse.
Se poi dovessimo necessariamente trovare un problema da risolvere, sarebbe opportuno riflettere sul tipo di approccio riservato alle periferie: la società non può ostracizzare dei ragazzi, trattandoli da reietti, per poi trovare il proprio alibi, in caso di guai, in quello che ascoltano.
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domenica 2 Aprile 2023