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Qualche giorno fa – la notizia sarà ormai nota a tutti – è venuto a mancare Paolo Rossi, l’eroe di Spagna ’82. Mentre scrivo, alcuni dei campioni di quella spedizione ne portano a spalla il feretro fuori dal Duomo di Vicenza, nella commozione dei pochi ammessi alle esequie.
La Coppa del Mondo del 1982 è abbastanza vecchia da far presumere che buona parte dei lettori di questo giornale non la ricordi in prima persona. In fondo, lo dice già il nome: UnderTrenta significa articoli brevi e autori giovani. Io stesso sono nato esattamente dieci anni dopo. E allora – per quanto il pensiero mi sembri sacrilego – è ragionevole presumere anche che più di qualcuno Pablito non sappia nemmeno chi fosse. Il calcio non piace a tutti e non c’è nulla di male. Breve riassunto per i millennial più disinteressati: l’Italia quel mondiale l’ha vinto in modo inaspettato, grazie a una squadra molto unita e ai gol di Paolo Rossi, attaccante della Juventus reduce da due anni di squalifica per calcio-scommesse. Quest’ultimo dettaglio rende la faccenda interessante, perché Rossi era il più italiano e letterario degli eroi: l’uomo comune che ha trasformato la propria personale tragedia in gloriosa resurrezione, trovando le risorse migliori nel momento di massima difficoltà. Il caso ha fatto il resto, regalandogli, per farlo, un pomeriggio la cui tensione drammatica sembra uscita dai romanzi e dal cinema che hanno costruito la nostra identità nazionale.
Siamo nella Barcellona effervescente dei primi anni della democrazia spagnola e sono le cinque di pomeriggio, l’ora fatale della corrida de toros, le cinco de la tarde rese immortali da García Lorca. L’Italia è un paese stanco, ostaggio del terrorismo politico da più di dieci anni, e la nazionale è considerata scarsa da tutti i commentatori. Enzo Bearzot, l’allenatore, è stato subissato di critiche per aver convocato Rossi, che non gioca da due anni, invece di Roberto Pruzzo, capocannoniere del campionato. La polemica si fa assordante quando superiamo il primo turno solo per sbaglio, con tre pareggi contro le non irresistibili Polonia, Perù e Camerun. La squadra per proteggersi inventa una consuetudine che farà scuola: il silenzio stampa.
Arriva il 5 luglio e quel pomeriggio di Barcellona. Per uno scherzo del regolamento siamo costretti a vincere contro il Brasile di Zico, Socrates e Falcao, una delle squadre più forti di sempre, cui basta il pareggio per approdare in semifinale. Gianni Brera scrive che se vinciamo si vestirà da flagellante e si fustigherà nella tradizionale processione agostana del suo paese d’origine. E’ lì che si sveglia Paolo Rossi, fino a quel momento del torneo inesistente. Ci porta in vantaggio due volte, sfruttando la supponenza difensiva del Brasile, che in entrambe le occasioni ci riprende quasi subito. A un quarto d’ora dalla fine segna il 3 a 2 finale, con una deviazione da due passi. Tre gol al Brasile – è l’unico ad esserci riuscito – che sono anche la sintesi del nostro calcio, fatto di tattica e fase difensiva prima che di qualità tecnica, e fanno sì che il nome di Pablito venga portato ad esempio, ancora oggi, nelle scuole calcio.
Dopo quella partita, il mondiale è in discesa: in semifinale liquidiamo la Polonia con una sua doppietta, e Rossi segna anche nella finale contro la Germania, vinta 3 a 1. L’esultanza di Pablito, le braccia alzate al cielo e il volto illuminato dalla bellezza discreta che non lo abbandonerà mai, è tra le immagini iconiche di quei giorni, assieme all’urlo spiritato di Marco Tardelli e alla gioia fuori controllo del Presidente Pertini, che in tribuna abbraccia il re spagnolo Juan Carlos.
Grazie a Rossi, in quell’estate l’Italia – da Bolzano a Lampedusa – riscoprì l’orgoglio e il tricolore, con una forza destinata a ripercuotersi ben oltre i campi di calcio. Non sorprendetevi, allora, se vi è sembrato di vedere la commozione negli occhi di chi è più anziano, ma magari del gioco non sa nemmeno le regole.
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domenica 28 Maggio 2023