Mondi di riso, battito di ciglia
A quasi due mila metri di altezza, guardi in basso e sei all’arrivo d’infinite terrazze di riso che seguendosi fanno a gara verso un mondo turchese di giorno e oscuro di notte. Gonfie d’acqua cambiano a seconda del mutar del cielo: nuvole alte e riflessi bianchi in terra; una montagna di gradini schiariti con lo spuntare della luna.
Siamo in Cina, nella provincia meridionale dello Yunnan. A iniziare le coltivazioni di riso Yuan Yang, millenni di anni fa, la minoranza etnica Hani (740.000), che tutt’ora coltiva e vive i villaggi disseminati lungo questi territori.
Ho potuto respirare nella pancia di quel mondo di riso, trovarmi al centro e con le braccia aperte correre in equilibrio sui bordi fangosi di un terrazzamento e l’altro.
La base di partenza è stata la città di Xinjie, uno snodo importante per i contadini e gli allevatori che abitano lungo i perimetri delle risaie del monte Ailao. Mi sono subito allontanata per una trentina di chilometri fino a giungere a Duoyishu: un agglomerato di case a forma di fungo tipiche del popolo Hani, qualche sasso, due strade principali di fango e una segnaletica che descriveva il valore dell’acqua per l’intera umanità.
Ho vissuto in questo villaggio dove le donne Hani dopo aver badato ad animali e arato la terra, filano scialli con tessuti precedentemente intinti in colori naturali. Erano vestite di bianco, verde e viola. Sedute, i loro cappelli sembravano cuciti dalla punta di pennelli scesi dal cielo. Più in là delle loro sagome si apriva una discesa di terrazzamenti che espandendosi tiravano una tela naturale di pieghe variopinte. Ferma a contemplarli, a ogni battito di ciglia l’emozione era sempre come a prima vista.
Il caldo di quelle valli e l’evaporazione dell’acqua creano persistenti nebbie di fine pioggia che i raggi del sole assorbirono due giorni dopo il mio arrivo. Sotto il turchese del cielo, le donne ritornarono indisturbate a filare gli abiti per la primavera successiva. Fuori dalle loro dimore chiacchieravano e tessevano. Passeggiando fui invitata da nonna e figlia a sedermi con loro, una famiglia che vive quei luoghi da nove generazioni. Nonostante la loro lingua sia di ceppo tibetano e birmano, mi parlavano un mandarino scorrevole. Gli Hani infatti sono conosciuti per avere capacità versatili nell’uso delle lingue. Mi raccontarono che si distinguono dalle altre 55 etnie che popolano la Cina, per il loro peculiare dialogo con la Natura. Non a caso si fanno chiamare “I figli del Dio celeste”.
A Duoyishu l’elemento idolatrato era appunto l’acqua: per un chilo di riso ne impiegano dai 2000 agli 8000 litri. Non ne sprecano una goccia: quella piovana viene imagazzinata e fatta fluire durante la stagione secca, quella raccolta per fertilizzare i bacini di ogni terrazza evaporerà in un cielo che la restituirà in fruibile energia.
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lunedì 10 Febbraio 2025