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Questo articolo arriva volutamente e consapevolmente in ritardo rispetto alla prova in linea mondiale di ciclismo, perché andava metabolizzata. Lo scorso 6 agosto a Glasgow, in Scozia, è andato in scena uno spettacolo indimenticabile. Mentre la maggior parte delle corse è dettata – al limite del prevedibile – da watt, marginal gains, indicazioni da parte dei direttori sportivi (che troppo spesso limitano le ambizioni dei corridori) e da tabelle di vario genere, l’ultima prova iridata si è distinta esattamente per il motivo opposto: pioggia, agonismo, imprevedibilità, quasi anarchia. Alla fine, senza radioline e auricolari nelle orecchie, a farla da padrone sono state solo le gambe.
E che gambe. Del resto, per affrontare 272 chilometri di corsa, per un totale di sette ore in sella a pedalare, le gambe servono eccome. Gambe e testa, perché su un percorso così sfiancante – non in termini di altimetria, ma di ripetitività: un anello da percorrere dieci volte, con saliscendi continui – il crollo psicologico è dietro l’angolo. Chiedere conferma a Tadej Pogačar, arrivato sì terzo, ma devastato. A malapena si reggeva in piedi.
Al contrario, Mathieu van der Poel ha dato il meglio di sé proprio su quelle rampe brevi ma intense che hanno sfibrato lo sloveno. La rasoiata che vedepè ha rifilato agli avversari a 22 km dal traguardo è già storia: lo stesso Pogačar, Pedersen (poi arrivato quarto) e Van Aert (secondo) non hanno avuto abbastanza energie per resistere all’attacco dell’olandese. Ha preso talmente tanto vantaggio – più di un minuto e mezzo – che neanche la caduta sotto la pioggia a 16 km dall’arrivo è riuscita a impensierirlo. Una bella rivincita per van der Poel che, allo scorso Mondiale, fu costretto al ritiro dopo appena 35 chilometri, reduce da una notte in commissariato per via di una lite in hotel. Dopo i trionfi alla Milano-Sanremo e alla Roubaix, il nipote di Poulidor riporta l’iride in Olanda, dove mancava da quasi quarant’anni.
«È stata una delle gare più dure della mia carriera e indossare la maglia iridata è un sogno che si avvera» ha dichiarato Vedepè. Lontani da questo entusiasmo invece i due “maledetti” del Mondiale: Wout van Aert e Alberto Bettiol. Il primo, perché relegato al secondo gradino del podio per l’ennesima volta in stagione, peraltro dietro al rivale di sempre; il secondo, perché ha sfiorato e sognato fino all’ultimo un titolo che l’Italia non vede dal 2008, cioè dall’impresa di Ballan a Varese.
In un ciclismo ormai quasi telecomandato, un corridore come van der Poel è fondamentale. Persino quando manda al macero le proprie azioni con attacchi avventati e dettati da un’indole impulsiva e testarda. Ha la faccia tosta di chi agisce senza pensarci troppo, di chi si rialza da una caduta come se non fosse successo nulla, talvolta assecondato dalla fortuna (la bici ai Mondiali è rimasta integra dopo essere finita sull’asfalto) ma soprattutto da un fisico imponente, eccezionale. Il crossista che smussa le pietre del pavé è una manna (anche) su strada. Chissà come ci sorprenderà ora re Vedepè, spinto dai colori dell’arcobaleno.
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giovedì 7 Dicembre 2023