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Rifkin’s Festival: l’ultimo film di Woody Allen

Rifkin’s Festival è un film dolce e malinconico, una confessione sincera che il regista Woody Allen fa al suo pubblico.

Quando vediamo Mort Rifkin entrare nello studio del suo psicologo per raccontargli le ultime vicende della sua vita ci troviamo in realtà di fronte lo stesso Woody Allen, desideroso di dire qualcosa a noi spettatori. In effetti, la rottura della quarta parete non è una novità per Allen: glielo abbiamo già visto fare, tra gli altri, in Io e Annie e Basta che funzioni. Al regista piace rivolgersi direttamente al suo pubblico e Rifkin’s Festival rappresenta forse la massima espressione di questa caratteristica del cinema di Allen. Certo, questa volta lo fa in modo un po’ indiretto, perché non ci troviamo di fronte a una rottura canonica della quarta parete. Tuttavia si tratta del medesimo meccanismo e l’intento risulta chiaro: Mort Rifkin è palesemente un alter ego del regista e lo psicologo a cui racconta la sua storia siamo in realtà noi spettatori.

Sebbene la pellicola non possa dirsi a livello di altri iconici film di Allen, rappresenta però uno dei suoi prodotti più sinceri. Rifkin’s Festival ci offre una finestra sulla personalità del regista all’età di 85 anni: sulle sue paure, le sue passioni e i suoi ricordi. Non solo uomo di cinema, ma anche amante del cinema, Allen mette in scena il “sogno di un cinefilo”, come ha scritto il Guardian. Le vicende e l’inconscio del professore di cinema Mort Rifkin prendono forma attraverso la versione parodica di scene di film diretti da registi come Fellini, Bergman, Godard, Truffaut e Buñuel; i preferiti di Allen, non a caso. Rifkin’s Festival si configura come un omaggio al cinema europeo dei grandi registi del passato, ma anche come una grande citazione di una delle pellicole del ‘periodo europeo’ dello stesso Allen: Rifkin’s Festival è infatti la versione grottesca di Vicky Cristina Barcelona. Tante sono le similitudini tra i due lungometraggi: personaggi molto simili, una storia d’amore che ha come protagonisti più di due persone (se Vicky Cristina Barcelona è la storia di un ménage à trois, Rifkin’s Festival parla di un ménage à quatre) e, soprattutto, lo stesso paese di ambientazione: la Spagna. Per di più, dopo il riproporsi delle accuse avanzate dalla figlia Dylan nel 1992, Allen si trova nuovamente costretto a lasciare gli Stati Uniti e a girare i suoi film in Europa, solo che questa volta è più stanco e malinconico che in passato.

In effetti, Rifkin’s Festival è una pellicola dai tratti estremamente malinconici e, sotto alcuni aspetti, rappresenta un addio del regista al suo pubblico: come Mort Rifkin appare intimorito e schiacciato dal giovane e avvenente regista francese Philippe, così Allen pare dirci di sentire di aver esaurito il proprio ruolo nel mondo del cinema. Il suo è un cinema che ormai appartiene al passato, come quello di Bergman e di Truffaut e che non riesce (o, forse, non vuole) adattarsi ai canoni della cinematografia contemporanea. Come scrive la redattrice di MYmovies. it Marzia Gandolfi, «nell’ultimo film di Woody Allen persino la Morte è stanca di giocare a scacchi con la vita».

Articolo realizzato nell’ambito del percorso esperienziale del Media Contest presso la testata UnderTrenta.it

Cultura
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