Parole, parole, parole. Su “Il Terzo Reich” di Romeo Castellucci
A proposito dello spettacolo Il Terzo Reich di Romeo Castellucci, andato in scena al teatro Sanbapolis di Trento il 26 e il 27 gennaio, è necessaria una riflessione su un aspetto vitale, quotidiano: la lingua che parliamo tutti i giorni.
Funziona così: quando siamo piccoli impariamo a parlare la lingua che sentiamo intorno a noi, con tutti i difetti di pronuncia tipici di quell’età. Poi andiamo a scuola, dove la lingua diventa una prescrizione da seguire con devozione e scrupolosità, incastonata in una serie inamovibile di regole. E avanti così, tanto disinvolti nella vita privata quanto impauriti e bloccati quando tuttora ci troviamo davanti a un’e-mail delicata o al colloquio di lavoro a cui teniamo tanto.
Il fatto omesso e mai dichiarato è che la lingua è un fatto ambiguo. Cambia in base al contesto, agli interlocutori, allo stato d’animo, alla provenienza geografica, alla classe sociale, al periodo storico. Da una parte la serie di regole astratte che formano un codice comprensibile a tutti, dall’altra le nostre infinite, creative, goffe realizzazioni pratiche di quel codice.
Torniamo ora allo spettacolo Il Terzo Reich. Dopo una danza propizia, gli spettatori vedono una serie di parole proiettate, scritte bianche su sfondo nero, il buio in sala e un leggero incalzare di un suono martellante. All’inizio l’istinto porta a decifrare le parole alla ricerca di un senso, di qualcosa che concateni un significato all’altro. Ma lentamente questo istinto svanisce, il suono diventa quasi fastidioso, le parole vengono proiettate sempre più veloci, fino a rendere la lettura impossibile. Non rimane che farsi trascinare da questa scomoda sensazione di essere lì, forzati alla poltrona del teatro, senza possibilità di uscita e in attesa di una svolta. La quale, puntualmente, non arriva: il vortice di parole prosegue per quarantacinque minuti circa e all’improvviso si blocca, lasciando gli spettatori alla poltrona, titubanti.
Il messaggio è chiaro: lo spaesamento è il risultato della violenza del linguaggio che percepiamo ma non scegliamo, della dittatura del flusso di parole (da qui il titolo Il Terzo Reich) che ci viene inflitta ogni giorno, nei social, nelle nostre relazioni, nelle infinte riunioni di lavoro. Un tutto uguale che toglie spessore e significato, in cui la parola torna a essere semplice involucro vuoto, contenitore senza contenuto.
Bello, ma già visto e scontato. Se le arti visuali hanno avviato una prolifica ricerca sul tema della parola già da decenni (Joseph Kosuth, Maurizio Nannucci tra gli altri) e lungi dal pensare che l’arte debba avere solo intenti pedagogici, sarebbe buono capire cosa farsene di questo flusso di parole, come possono tornare ad avere un significato. Kafka diceva dei libri, ma vale anche per l’arte, che “devono essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”. Dopo Il Terzo Reich la sensazione è che il ghiaccio dentro di noi sia rimasto intatto, la confusione del nostro presente e della sua lingua è solo confermata.
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sabato 5 Ottobre 2024