Una commedia tra i banchi
Da insegnante, non capirò mai i miei alunni. E sono consapevole che i miei alunni non capiranno mai me come insegnante. Dirò di più. È possibile che in classe si riesca ad arrivare a una certa sintonia d’anime, ma solo tra persone. Mi spiego: io come persona posso farmi carico dei problemi, delle gioie e dei dolori di un mio studente o di una mia studentessa, ma solo dimenticando di avere di fronte un mio studente o una mia studentessa. E un mio studente o una mia studentessa possono aprirsi con me, rivelandomi problemi, gioie e dolori, solo dimenticando di avere di fronte un insegnante. Il loro insegnante.
Se manca questa sospensione del dubbio, una sintesi tra insegnanti e studenti credo sia impossibile. I ruoli che la società e la storia hanno imposto alle due parti sono troppo distanti. Siamo antagonisti l’uno per l’altro. Un insegnante è tutti gli insegnanti prima di lui – di tutti i tempi e di tutti i luoghi – e il suo compito è quello di bacchettare, redarguire, ammonire e riprendere con una certa spocchia chi ha di fronte a sé, cioè studenti e studentesse. Uno studente o una studentessa sono tutti gli studenti e tutte le studentesse prima di loro – di tutti i tempi e di tutti i luoghi – e il loro compito è quello di ribellarsi, opporsi, sbertucciare e non ascoltare mai (ma proprio mai, eh, in nessuna circostanza) chi hanno di fronte a sé, cioè l’insegnante. Sono le maschere di una tragedia scritta eoni fa, nella quale non sono ammesse modifiche.
Una volta accettate le regole del gioco, chi cerca di sfuggire ai meccanismi di questa catena prima del tempo (cioè, prima dei tre o dei cinque anni) generalmente non fa una bella fine. L’insegnante viene bollato con una smorfia di superiorità come rivoluzionario e questa etichetta assume fin da subito una sfumatura assolutamente negativa. Lo studente o la studentessa, invece, sono i cocchi, i secchioni, i leccapiedi, eccetera eccetera sulla stessa linea. Quasi come se cercare una collaborazione (tregua?) tra due parti che devono convivere almeno trenta ore a settimana, trentacinque settimane all’anno, sia deplorevole, un peccato da espiare immediatamente: “Sì, è stato un errore di gioventù, sai, l’inesperienza. Ma ora sono diverso, giuro”.
Forse ho esagerato, ma sono convinto che la scuola segua troppo spesso questa direzione. I “rivoluzionari” o i “leccapiedi” sono troppo pochi, troppo isolati. Vengono segnati a dito. È un ambiente spesso asfittico e come tale rischia di fare più danni che altro. I mesi di pandemia e di conseguente didattica a distanza sono stati per alcuni il colpo di grazia. E a settembre ricomincerà la scuola (si spera) in presenza. Non può essere come prima, dodici mesi di DAD non possono essere passati invano. “Uscirne migliori” è (era?) il mantra. Non so, non credo. Ma vale quantomeno la pena tentare di trasformare quella tragedia in una commedia.
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martedì 12 Novembre 2024