Alzheimer: guardiamo il bicchiere mezzo pieno
Intervista ad Anna Maggiolino, psicoterapeuta ed esperta in neuropsicologia clinica
La dott.ssa Anna Maggiolino è iscritta all’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia.
Dal 2006 lavora nell’ambito della valutazione e riabilitazione neuropsicologica, collabora con l’Associazione Alzheimer Bari e l’Associazione Parkinson Puglia) proponendo interventi rivolti sia ai pazienti (valutazione neuropsicologica, riattivazione cognitiva, supporto psicoaffettivo) sia al famigliare (formazione-informazione sulla malattia, supporto psicoaffettivo).
Nel 2012 ha effettuato un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Puglia in collaborazione con L’Università degli Studi di Bari e il Consorzio fra cooperative Elpendù, di Mola di Bai, sulla riabilitazione cognitiva nei pazienti con Mild cognitive impairment (deterioramento isolato della memoria) in Malattia di Parkinson.
L’abbiamo intervistata per voi.
La malattia di Alzheimer è considerata un’epidemia silente. Quando entra in una famiglia è come un uragano che spazza via tutto. Quando si è accorta di voler lavorare in questo ambito?
Era il natale del 2005, ed io ero da poco laureata. Avrei dovuto festeggiare con i familiari la mia laurea. Non vedevo mio zio da più di un anno. Viveva a Roma. Mi avevano detto che stava affrontando una brutta depressione. Era in cura da anni per depressione. Quel natale era subentrata da poco la consapevolezza di una nuova diagnosi: malattia di alzheimer. Mio zio era poco più che cinquantenne. Il suo sguardo era assente, non riusciva a gestire più una conversazione e rideva in maniera inappropriata. Si stava pian piano spegnendo. In quel momento mi sono sentita disorientata e spaventata. Mi ripetevo in continuazione, quasi fosse un mantra, “devi capire meglio di cosa si tratta, possibile non si possa far nulla?”. In quel momento ho deciso di svolgere il mio tirocinio formativo presso l’Unità di riabilitazione Alzheimer. Più che altro per poter capire. Lì ho iniziato a guardare i malati di alzheimer con altre lenti.
Spesso si sente dire “quella persona ha la malattia di alzheimer… non c’è più niente da fare”. È proprio così?
No, non è affatto così. È vero che i farmaci utilizzati attualmente non hanno il potere di togliere la causa della malattia, quindi di curare la demenza, ma la valutazione “non c’è più niente da fare” è frutto di una visione parziale del malato, una valutazione che ci porta sempre a vedere quello che il malato non riesce più a fare, il famoso “bicchiere mezzo vuoto”. Quando si lavora con la disabilità, in questo caso neurodegenerativa, quindi una malattia che per definizione è destinata a peggiorare nel tempo, si deve cambiare completamente prospettiva. Riuscire a preservare una determinata abilità il più a lungo possibile è un grande successo terapeutico. È un successo proprio perché quell’abilità è destinata ad essere perduta. L’operatore, quindi, sposta la sua attenzione sul “bicchiere mezzo pieno”, ovvero su tutte le risorse che quel determinato paziente mantiene. E lavorare con un paziente alzheimer significa rivolgere attenzione anche al famigliare, la vittima nascosta di questa malattia.
Le è mai capitato di dirsi “non fa per me, è troppo forte come lavoro”?
Sì, mi è capitato, soprattutto all’inizio della mia carriera, quando mi concentravo sull’intervento psicologico come rimozione della malattia. Poi ho iniziato, invece, a guardare alla persona, a “prendermi cura” di lei. È questa la lente che mi ha spinto ad andare avanti.
Leggi anche:
Poesia a vignette
Twitter:
domenica 8 Dicembre 2024