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Cantare il mare: gli entusiasmi di ieri, le paure di oggi

Incontri. Nel mondo globalizzato le nostre vite sono colme di incontri. Genti, informazioni e merci viaggiano veloci creando relazioni e reciproco arricchimento; ma i continui flussi possono portare a non approfondire le nuove conoscenze, a percepirle minacciose, al timore di perdere la propria tradizione, quel “noi” da difendere dagli “altri”.

Niente di nuovo, l’incontro/scontro fra civiltà ha da sempre caratterizzato la storia umana e, seppur si siano succeduti nei secoli vincitori e vinti, molto spesso proprio dalle popolazioni sconfitte sono arrivate le più grandi innovazioni: così i greci hanno appreso dai fenici, così i romani non avrebbero avuto la stessa fortuna se non fossero entrati in contatto col pensiero ellenico. Perché è l’incontro che fa progredire le civiltà, non il loro combattersi. Proprio dall’antichità il luogo principalmente deputato all’incontro è stato il mare, oggi come allora fonte d’inesauribile ispirazione per poeti, cantanti ed artisti. Il mare solcato da Odisseo in un continuo viaggio verso il nuovo, verso l’altro, il mare attraversato dagli ori, dalle spezie, da pirati e naviganti, quel mare che secondo Fabrizio De André «separa e unisce popoli  e continenti» stimolando «il sogno e l’immaginazione», ma anche un «continuo contatto con la realtà», che fornisce immagini, suoni, colori.

Ancora negli anni Novanta vari cantautori italiani continuarono ad omaggiare il Mediterraneo, la sua storia, il suo eterogeno connubio di culture, con il lancio di tre canzoni, uscite nell’arco di dieci anni. Mediterraneo di Mango nel 1992 ne descriveva i colori, «Bianco e azzurro sei/ con le isole che stanno lì/ le rocce e il mare», gli odori e i sapori, «con le arance», i paesi e gli orizzonti «e la strada che piano viene giù/ tra i pini e il sole», con l’invito a gettare «lo sguardo giù» per farsi trasportare dalla sua meraviglia. I Nomadi nel ’98 invece preferiscono concentrarsi sulla storia di quell’ «enorme spirito d’acqua/ che illumina i marinai», sulle «popolazioni millenarie» che «son passate di qua/ sopra un cargo, a difendere, la loro dignità», sui profumi degli agrumi, sulle storie che «celano i porti/ dietro alle case bianche/ di pescatori, di fibra dura/ quasi in odor d’Oriente». Ma è Eugenio Bennato con Che il Mediterraneo sia a ricreare l’atmosfera dei mercati, una sinestesia di suoni, lingue, genti, religioni «tra la storia e la leggenda/ del flamenco e della taranta/ e tra l’algebra e la magia/ nella scia di quei marinai» con una canzone che alterna italiano, napoletano, arabo e francese, combinando sonorità di diverse tradizioni musicali.

È qui il punto; il mare, il Mediterraneo è «andare, andare alla stessa festa/ di una musica fatta di gente diversa/ da Napuli che inventa melodia/ ai tamburi dell’Algeria», è unione, non contrasto. Accoglienza e non sbarramento: un luogo di vita, non il cimitero di molti. Purtroppo ultimamente il mare viene ancora citato nelle canzoni, ma con altri scopi. Fra 2017 e 2020 due artisti italiani preoccupati l’hanno inserito nelle loro canzoni per invitare all’apertura, per contrastare una tendenza negativa che va sviluppandosi. Mannarino in Apriti cielo afferma «Apriti mare/ e lasciali passare/ non hanno fatto niente/ niente di male» e Niccolò Fabi in Io sono l’altro mostra come l’altro sia semplicemente quello «che il tuo stesso mare/ lo vede dalla riva opposta», non una minaccia. Perché in un mondo globalizzato, in un mondo d’incontri, di merci, informazioni e genti che viaggiano veloci, non si può temere una diversità che arricchisce, non ci si può chiudere all’altro.

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venerdì 19 Aprile 2024