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Di scudetti mancati (e di chi non sa vincere)

Scrivo con l’amarezza dell’interista che si è svegliato un lunedì mattina di fine maggio e ha dovuto fare i conti con un mondo di rossoneri in festa. Fa male, specie se penso a come sarebbe potuta andare, ma passerà. Piuttosto, questo malinconico lunedì mi ha dato l’occasione per sviluppare una riflessione che già da un po’ ronzava nella mia testa. Riguarda il tifo, il tifo in generale.

Della stagione dell’Inter non salvo molto, pur non essendo tra quelli che parlano di fallimento. Galleggio a metà strada. Per che cosa dovrei gongolare poi? Sì, in cascina sono finite due coppe – per di più strappate alla Juventus – e la vittoria in casa del Liverpool agli ottavi di Champions League è stata certamente prestigiosa, per quanto inutile. Non parlo di “stagione straordinaria”, come fanno in molti, per due motivi. Primo, perché è mancata la giusta convinzione (o cattiveria, chiamatela come volete) quando sarebbe servita e se c’è una cosa che non sopporto da chi guadagna milioni di euro prendendo a calci un pallone è l’indolenza. Secondo, perché temo quello che la società possa fare (di nuovo) durante la sessione estiva di calciomercato. Se la squadra non verrà smembrata, allora rivaluterò l’anno in positivo. La stagione del Milan è stata altrettanto mediocre, ma la squadra è riuscita – in termini di cattiveria e fame – là dove l’Inter è mancata. Va riconosciuto almeno questo. La retorica del “Milan nuovo Leicester” o delle “idee che hanno battuto i soldi” (si è già sentito di tutto e, nel momento in cui scrivo, non sono passate nemmeno 24 ore dalla fine del campionato) va considerata per quello che è: un delirio intellettualmente disonestissimo.

Una cosa però non ho capito: per quale motivo alcuni tifosi milanisti, pure di ampio seguito mediatico, si sentano in dovere di attaccare l’Inter e gli interisti, invece di celebrare il Milan e i milanisti. E così arriviamo al cuore di questa riflessione: il tifo. Il tifo tira fuori il peggio da molte persone. L’esperienza dello stadio, cioè del vedere i propri colori dal vivo, sa essere magnifica e terrificante al tempo stesso. È collettiva: come un unico organismo, gli spalti respirano, tifano e vivono il match. Senza nemmeno rendersene conto, il tifoso sente moltiplicate per osmosi le proprie emozioni, nel bene e nel male. Mi sono davvero piaciute le immagini, provenienti da quasi tutti gli stadi italiani nel corso del weekend, dei tifosi che hanno omaggiato i propri beniamini per l’ultima volta: mi rimangono nel cuore per ovvi motivi le lacrime dei calciatori dell’Inter, celebrati per diversi minuti dopo il fischio finale di un campionato sfuggito sul più bello. Perché il tifo non sa essere sempre così pulito e toccante? Perché deve sempre sfociare nell’arroganza, quando non nell’aggressione, fisica o verbale che sia? Lo hanno fatto certi interisti nei confronti dei cugini rossoneri l’anno scorso e lo stanno facendo certi rossoneri nei confronti dei cugini nerazzuri in queste ore. Per quale motivo? Perché non riusciamo a gioire dei successi della nostra squadra del cuore, ma ci sentiamo spinti prima di tutto a demolire quella avversaria? Sono atteggiamenti che fanno disamorare dal calcio.

Bisogna saper perdere, certo. Ma bisogna anche saper vincere.

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giovedì 7 Dicembre 2023