Chiudi

Un'esperienza su misura

Questo sito utilizza cookie tecnici e, previa acquisizione del consenso, cookie analitici e di profilazione, di prima e di terza parte. La chiusura del banner comporta il permanere delle impostazioni e la continuazione della navigazione in assenza di cookie diversi da quelli tecnici. Il tuo consenso all’uso dei cookie diversi da quelli tecnici è opzionale e revocabile in ogni momento tramite la configurazione delle preferenze cookie. Per avere più informazioni su ciascun tipo di cookie che usiamo, puoi leggere la nostra Cookie Policy.

Cookie utilizzati

Segue l’elenco dei cookie utilizzati dal nostro sito web.

Cookie tecnici necessari

I cookie tecnici necessari non possono essere disattivati in quanto senza questi il sito web non sarebbe in grado di funzionare correttamente. Li usiamo per fornirti i nostri servizi e contribuiscono ad abilitare funzionalità di base quali, ad esempio, la navigazione sulle pagine, la lingua preferita o l’accesso alle aree protette del sito. Comprendono inoltre alcuni cookie analitici che servono a capire come gli utenti interagiscono con il sito raccogliendo informazioni statistiche in forma anonima.

Prima parte6

cm_cookie_cookie-wp

PHPSESSID

wordpress_test_cookie

wordpress_logged_in_

wordpress_sec_

wp-wpml_current_language

YouTube1

CONSENT

Scopri di più su questo fornitore

Google3

_gat_

_gid

_ga

Scopri di più su questo fornitore

Wish You Were Here

Dopo il successo stratosferico di The Dark Side of the Moon (1973), i Pink Floyd sono sfibrati e scontrosi, apparentemente privi di idee e di voglia di farsene venire. Sì, c’è qualcosa, e quel qualcosa è soprattutto una suite lunghissima, intitolata (al tempo) Shine on. Manca però la scintilla, qualcosa che li levi dall’apatia litigiosa nella quale sono immersi. Ci pensa Roger Waters: è lui che convince gli altri membri della band a dividere la suite in due parti – da porre a incipit ed explicit del nuovo album – e a inserire tra esse alcune tracce, come se fossero chiuse in un abbraccio.

Wish you were here parla di due cose: della rapacità dell’industria discografica e dell’assenza. Cominciamo dall’assenza. L’album ne piange due. La prima è quella di Syd Barrett, il diamante pazzo a cui è dedicata la suite elegiaca che apre e chiude l’album. Shine On You Crazy Diamond è una disarmante e commovente elaborazione del “lutto” o, meglio ancora, del torto di cui si sentono colpevoli i Pink Floyd: aver spinto Barrett alla follia.

La seconda assenza (questa volta metaforica) esorcizzata nel disco, in particolare nella title-track, è quella di Roger Waters, strappato interiormente tra il fascino del successo ottenuto – che sente di poter inseguire solo piegandosi all’industria musicale – e l’esigenza di dar retta al proprio straripante io anticonformista.  Attraverso la voce di Gilmour, Waters canta a se stesso, al sé più autentico: sono sue le due lost souls swimming in a fish ball, incapaci di distinguere heaven from hell, blue skies from pain. L’invocazione così piena di nostalgico dolore – how I wish, how I wish you were here… – strappa il cuore e devasta l’anima: è il genio che mette a nudo la propria fragilità.

Veniamo al secondo motivo. Welcome to the machine e Have a cigar sviluppano un discorso musicale unico, seppur in qualche modo intrecciato al motivo dell’assenza. In Welcome to the machine protagonista è la macchina che soffoca e disumanizza. I sintetizzatori minacciosi incupiscono ulteriormente l’atmosfera, anticipando quella di The Wall.

Have a cigar cambia il tono: da minaccioso a beffardo. Waters sbeffeggia con inesausta ferocia e solida sicurezza la “macchina”, che ora assume più chiaramente i connotati dell’industria discografica, che sta fagocitando lui e la sua band. Have a cigar confluisce senza soluzione di continuità in Wish You Were Here: la spietata sicurezza diventa introspezione. Bisogna fare i conti con quella macchina, che dà tanto, ma che rischia di portare via tutto.

Una delle band più importanti nella storia della musica è arrivata a questo punto. L’intero disco è una riflessione sul modo migliore di affrontare l’enorme eredità lasciata da Syd Barrett e da The Dark Side of the Moon. Una riflessione sull’orlo del precipizio, a un passo dalla rottura.

Giacomo Ferri

Rubriche
Lascia un commento

I commenti sono moderati. Vi chiediamo cortesemente di non postare link pubblicitari e di non fare alcun tipo di spam.

Invia commento

Twitter:

sabato 18 Maggio 2024