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Una metafora della storia irlandese diretta da Martin McDonagh: The Banshees of Inisherin

La penna di Martin McDonagh non è di certo nuova nei taccuini della critica mondiale, è davvero facile essersi imbattuti in un suo lavoro quanto esserne rimasti colpiti. Tra i titoli principali, nel mondo del grande schermo, per non parlare del teatro, possiamo sicuramente annoverare 7 Psicopatici o Tre manifesti a Ebbing, Missouri.

Le sue origini irlandesi sono sempre state un elemento forte nella sua narrativa e il suo ultimo lavoro ne è la conferma: The Banshees of Inisherin, dove Inisherin sta per “isola irlandese”, è un film diverso anche per gli standard di McDonagh. Il mondo di Inisherin – già presente in due opere teatrali, questo film è la conclusione del Ciclo delle Isole Aran – sembra quasi essere stato partorito dal duo Lanthimos-Filippou e Colin Farrell – qui protagonista indiscusso – è ben noto per calarsi alla perfezione nelle pellicole scritte dai due greci. Oltre ad aver avuto dietro una grande penna, il film ha contato sull’eccellente fotografia di Ben Davis, così come su un cast totalmente irlandese, tra cui Brendan Gleeson, Kerry Condon e Barry Keoghan.

La storia è appunto ambientata sull’isola di Inisherin, nel ’23, quando la Guerra Civile Irlandese è agli sgoccioli. Il focus è puntato sempre sulla conflittuale amicizia tra Padraic, Farrell, e Colm, Gleeson, in particolare sulla decisione di quest’ultimo di non voler essere più amico di Padraic, “perché troppo stupido”. Il povero Padraic, nella sua semplicità, non riuscirà ad accettare l’asprezza di quello che era suo amico da una vita e che ora invece sembra averlo ripudiato; l’escalation di eventi sarà inaspettata, malinconica e sicuramente non rapida, ma quello che rapisce davvero è il costante alone di incertezza e tensione legati all’ambiente circostante.

Sono proprio la superficialità degli eventi e la cecità – dettata dalla rabbia, dalla frustrazione, dalle incomprensioni – che porteranno a risultati insperati, ed è qui che il film deve essere letto come una grandissima metafora: Colm e Padraic sono l’Irlanda, divisa in due, in una guerra che – come da splendido dialogo finale del duo candidato agli Oscar – viene vista come impossibile da terminare.

McDonagh conosce la storia e rappresenta alla perfezione una guerra incessante, autodistruttiva e inconcludente: c’è una meta-guerra, perché quella “vera” viene vista come qualcosa di troppo lontano, di impossibile da raggiungere, solo il rumore degli spari in lontananza dalla terra ferma porta, raramente, l’attenzione su quale sia davvero il periodo storico del film.

Il film è rimasto fuori da quelli premiati all’ultima edizione degli Accademy Awards, nonostante le 7 candidature, ma di certo – con altri titoli come Triangle of Sadness – sarà tra i più ricordati: è un’opera capace di colpire un intero popolo, molto più del narcisistico Belfast di Kenneth Branagh, sicuramente più emozionante ed emozionale. Gli stessi irlandesi, tramite Rotten Tomatoes per esempio, hanno espresso il plauso per il regista, capace di inquadrare e spiegare al grande pubblico cosa è stata l’Irlanda in una fase del suo percorso che l’ha portata ad essere quello che è, tutto ciò senza mai pesare sul pubblico, nonostante si tratti di un periodo così violento. A testimoniare questa crudezza ci sono tanti elementi, capaci di essere quasi trascurati dal pubblico per il gioco che si instaura tra i due “ex-amici”: l’alcolismo, gli abusi e gli abusi di potere, un suicidio, il tabù, una religione che è davvero oppiacea per la piccola massa e così discorrendo. È una pioggia di vernice realista sulla tela di McDonagh, uno scorcio su una vera Inisherin, quella per antonomasia: la sua.

Cultura
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mercoledì 6 Dicembre 2023