Timbuktu: il fanatismo religioso che distrugge la vita delle persone
Ha mancato di poco la vittoria come miglior film straniero all’ultima edizione dei premi Oscar, ma solo la settimana precedente aveva fatto il pieno di riconoscimenti ai César, la manifestazione che ogni anno a Parigi premia il meglio del cinema francese. Stiamo parlando di Timbuktu, ultimo lavoro del regista mauritano Abderrahmane Sissako.
Già autore nel 2006 dell’impegnato Bamako e nel 2002 del poetico Aspettando la felicità, Sissako torna a raccontare in questa pellicola il Mali, la terra dei suoi avi. Il regista ci fa tornare al 2012, quando truppe jihadiste provenienti dalla Libia presero il controllo della parte settentrionale del paese imponendo la legge della sharia: le sigarette, la musica, persino le risate e il gioco del calcio furono proibiti. «È vietato tutto ciò che si poteva fare prima» proclamavano i miliziani, passando di villaggio in villaggio armati di kalashnikov e megafono. Una situazione surreale in cui poteva capitare di assistere a una partita di calcio giocata da un gruppo di ragazzi senza un pallone, prendendo a calci una sfera immaginaria.
Quello che ci racconta Sissako è un mondo dove diventa difficile persino comunicare, con un continuo salto linguistico fra arabo, tuareg, francese e inglese. Una metafora non solo del caos politico, ma anche dell’estrema incoerenza ideologica che regna fra i nuovi conquistatori. Un mondo rifiutato dagli stessi fedeli musulmani, rappresentati nel film dall’Imam della città, che non si riconoscono nell’assurdità delle regole imposte dagli jihadisti. Un mondo dove improvvisate corti islamiste comminano con leggerezza pene, che possono altresì prevedere la morte del condannato.
Protagonista del film è però anche la famiglia di Kidane, che con la moglie Satima e la figlia dodicenne Toya vive in una tenda fra le dune sabbiose nei dintorni di Timbuktu. La loro è una vita pacifica, lontana dalle tensioni e dagli affanni delle città e dei villaggi. Periodicamente ricevono le visite del giovane Issan, il pastore incaricato di prendersi cura delle loro 8 vacche. La vita di Kidane, Satima e Toya ci appare tanto bella quanto effimera, come una parentesi sospesa sulle brutture della società in cui vivono. Loro stessi sembrano consapevoli della fragilità di questo mondo e paiono costantemente in attesa dell’imminente sciagura.
Ed è in una giornata di sole che si compie il loro destino. Una delle vacche di Kidane sfugge al controllo di Issan e distrugge le reti di un pescatore. Questo si vendica uccidendo l’animale. Kidane scende al fiume per chiedere spiegazioni all’uomo, portando con sé una pistola. La situazione degenera e Kidane esplode un colpo uccidendo il pescatore.
La realtà entrerà a questo punto prepotentemente nelle loro vite, portando tutto il dolore e la violenza di un mondo in cui l’ideologia ha preso il posto della ragione e del buonsenso.
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