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Luc Moullet: intervista al regista della Nouvelle Vague con un debole per il TFF

Nel ’64, ovvero l’età d’oro dei Cahiers du cinéma – storicamente una delle più importanti riviste di critica cinematografica francese dalla risonanza globale – il Trento Film Festival veniva raccontato in un articolo intitolato “Nécessité de Trento”, dall’allora poco più che ventenne Luc Moullet.

Il critico e regista francese è tornato a distanza di sessant’anni al Festival, con un omaggio intitolato proprio “Nécessité de Moullet”, composto da varie proiezioni estratte dalla sua vasta filmografia. Il cineasta ha lavorato su ogni genere possibile, addentrandosi anche in temi molto diversi tra loro, ma il filo conduttore nella maggior parte delle sue creazioni è stato quello de “la montagna”. È proprio da qui che l’intervista è partita: dalla linea che unisce il Trento Film Festival e i lavori di un grande regista come Luc Moullet.

La montagna è stata da lei definita come “parte integrante della nostra vita”. Come è diventata parte della sua e del suo processo artistico?

Nel mio caso è perché una parte della mia famiglia è originaria delle Prealpi nel Sud della Francia, si tratta quindi di un concetto familiare. Ho vissuto a lungo le montagne ed è interessante mostrare cose che in altri film non sono visibili, come la vita selvaggia e particolare che si vive lì, e lo era specialmente allora, quando il cinema francese era un cinema “cittadino”.

Decise di partecipare quando gli altri critici non erano così interessati, qual è stata la scintilla per questa così forte attrazione per il Trento Film Festival?

Il Festival, oltre i film, offriva la possibilità di visitare montagne della zona, come la Paganella o Madonna di Campiglio: avevo la possibilità di addentrarmi nel cuore delle Dolomiti. Gli altri critici non erano così attratti, per esempio Truffaut aveva una vera e propria repulsione perché il suo patrigno lo forzava a passare tempo in montagna, mi sono ritrovato quindi il solo a partecipare.

A distanza di anni ritiene ancora che il Festival abbia quell’importanza e peso di una volta, quando venne da lei descritto?

L’interesse perdura, è un luogo centrale per presentare film a tema montagna, gli altri festival, come quello di Cortina d’Ampezzo, ora sono spariti. Trento era un luogo dove potevi incontrare alpinisti o cineasti allo stesso tempo, a disposizione poi c’erano molte attività, venivano proposti anche film sull’esplorazione.

Crede che la montagna abbia avuto abbastanza spazio nel mondo del cinema?

Forse non abbastanza. La grandezza del cinema di questo genere ha avuto il suo apice tra il 1920 e il 1940, in particolar modo in Germania, dove quello della montagna era un culto: c’erano questi superuomini che riuscivano a vincere le montagne, fu un tema centrale nel cinema del regime nazista. Per quanto riguarda film più recenti penso a “Il tempo si è fermato” di Ermanno Olmi, che tratta di uno studente che per lavoro si sposta sulle Alpi, allontanandosi dalla città, ma anche altri come “Uomini Contro” di Francesco Rosi. Ci sono anche dei film americani, come “The Eiger Sanction” di Clint Eastwood, sullo Yosemite. Negli anni ’30 il cinema di montagna era abbondante e in parte anche dal carattere fantastico. C’erano i film di Arnold Fanck, di Luis Trenker o anche di Lenis Riefenshtal. Lei era l’attrice “preferita” per i film di montagna, girò anche un film nel ’31 vicino a Bolzano. C’è da ricordare anche “Il gatto della montagna” – Die Bergkatze – di Ernst Lubitsch, sempre dal carattere fantastico, era un film espressionista: venne girato in un luogo molto isolato, con inquadrature ridotte e significative, che a volte assumevano la forma di un serpente o di una chiave.

Cultura
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