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In piazza: rabbia e passione. Intervista al fotogiornalista Dino Fracchia

Dino Fracchia, fotogiornalista, di mestiere non fa “solo” fotografie, ma documenta preziosi momenti di storia che, se venissero raccontati solamente a parole, non regalerebbero le medesime emozioni che il racconto per immagini è in grado di scaturire. Istanti, quelli da lui per sempre catturati, che provocano curiosità, insieme a rabbia e nostalgia, per quei tempi in cui le piazze ed i parchi erano animati da vitalità, rumore e soprattutto persone.

Quando e come è iniziata la Sua carriera? Ha sempre saputo che avrebbe voluto fare il fotogiornalista?

Assolutamente no. Io in tutto questo ci sono cascato per sbaglio. Nel 1970 iniziavo gli studi per diventare ingegnere aeronautico, ma dovetti interrompere poiché costretto al servizio di leva. E, siccome a fare il militare ci si annoiava, feci amicizia con un altro collega di sventura, che era stato assegnato al laboratorio fotografico: fu proprio lì che iniziammo a “pasticciare” insieme. Quando poi venni congedato, i soldi per gli studi non ce li avevo più e fu così che, dopo una brevissima esperienza come commesso in una cartoleria, iniziai a fotografare (da autodidatta). La mia fortuna fu quella di lavorare per un periodo per l'”Unità”, esperienza che, insegnandomi a stare ai tempi e ai ritmi di un quotidiano, mi formò come fossi stato all’università. Ora sono passati quasi cinquant’anni dal lontano ‘74: cinquant’anni in cui non ho mai smesso di pigiare quel bottoncino sulla macchina.

Il libro “In piazza: rabbia e passione” raccoglie fotografie da Lei scattate dagli anni Settanta ad oggi. Cosa raccontano e com’è nata l’idea di questo volume?

Ho inizialmente proposto all’editore differenti foto che avevo in archivio. Quest’ultimo ha pensato di mettere insieme quelle immagini che ritraevano differenti momenti di raduno in luoghi come piazze o parchi, partendo dalle proteste operaie della fine degli anni Sessanta ed arrivando alle foto di quest’anno con le mascherine.

Se dovesse scegliere solo una fra le Sue fotografie, quale sarebbe e perché?

Domanda estremamente complicata. Il peggior giudice delle proprie fotografie è il fotografo stesso. Mi sono occupato di moltissime cose: di industria, lavoro, disoccupazione, problemi sociali, immigrazione e politiche internazionali. Ho viaggiato in lungo e in largo, partecipando a diverse missioni militari italiane all’estero fra Iraq, Jugoslavia, Albania o Mozambico, per citarne alcune. Ogni foto trascina con sé un’esperienza vissuta e perciò unica: ciò rende inevitabilmente ardua la scelta. Chiedo piuttosto io a Lei, di scegliere per me.

Con questo spunto finale, che ci suggerisce ridendo, ci porta ad immaginare, mentre sfogliamo il suo libro, le avventure da lui vissute, che hanno arricchito un’esistenza fatta di storie raccontate e da raccontare. Perché essere stato testimone di quell’Italia abitata da chi le strade le attraversava «alla ricerca di un mondo migliore» non è certo cosa da poco. E fissare per sempre su carta quella «rabbia e passione provate insieme, poiché ci si scopriva non più soli» dev’essere mestiere assai difficile, ma prezioso e necessario per ricordare, soprattutto in momenti come quello attuale, che forse un giorno si potrà tornare a stringersi stretti e appassionati come un tempo.

Cultura
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