L’Odissea di Instagram

Non c’è niente di più dannatamente snervante di provare a risolvere un problema di accessibilità a Instagram. È come perdersi in un labirinto senza uscita: puoi cambiare direzione ogni volta che vuoi, ma finisci sempre per sbattere contro un muro. Eppure, il mio problema è facilmente risolvibile, ci fosse solo dall’altra parte la volontà di farlo. Mi serve un codice di sei cifre – sei, non settantacinque – per poter di nuovo accedere alla pagina che su detto social gestisco. Che sarà mai? Eh, che sarà mai. È un bell’inghippo se, nel tragitto – evidentemente odissiaco – tra il centro operativo di Instagram (non saprei come altro chiamarlo) e il mio cellulare, l’SMS che contiene le sei cifre si perde. Si perde, cioè non arriva. Non so se ammaliato dalle sirene, trasformato in porco da Circe, inzeppato di cibo, vino e amore da Calipso o finalmente ammazzato da Polifemo. Semplicemente, non arriva.

Posto che, nel momento in cui scrivo, il problema non è stato ancora risolto, e inizio a credere che mai lo sarà, questa ridicola farsa (ancora, non saprei come altro chiamarla) mi spinge a una riflessione: e se invece di Instagram fosse stato qualcosa di più serio? Se avessi avuto il bisogno di accedere a dei dati più importanti – dati sanitari, dati bancari – e per un inghippo tecnologico non solo mi fosse stata preclusa la possibilità di farlo, ma mi fosse stato anche impossibile contattare chicchessia per ricevere assistenza? Non c’è dubbio: la tecnologia ha facilitato enormemente la nostra vita. Ma ci ha resi contemporaneamente più piccoli in un mondo che per noi è smisurato e meno comprensibile; un mondo in cui basta davvero pochissimo per scomparire.

Non solo questo. C’è anche una questione di de-responsabilizzazione, dietro a tutto questo. È mai possibile che un’azienda così grande e così pervasivamente diffusa non abbia un team di persone che offra assistenza a chi ne ha bisogno? Capisco la necessità di demandare agli algoritmi la risoluzione dei problemi superficiali. Anzi, a volte basta semplicemente leggere le FAQs, alle quali peraltro rimandano gli algoritmi. Ma se i problemi – anche apparentemente superficiali – non si risolvono? Dietro la cocciutaggine dell’algoritmo che come un disco rotto mi riporta sempre alla stessa soluzione, soluzione che evidentemente non fa al caso mio, deve esserci anche qualcuno fisicamente riconoscibile. Qualcuno a cui rivolgersi, qualcuno contro cui puntare il dito e da biasimare, se necessario. E invece non c’è nessuno. L’Instagram Team che risponde alle mie mail non è altro che la firma fittizia di un generatore automatico di risposte. Di chi è la responsabilità, quindi, del malfunzionamento della piattaforma? Di nessuno. O, almeno, non di Instagram. Quindi, probabilmente, mia.

Lo stato delle cose spaventa e lascia francamente amareggiati. Fa sentire davvero piccoli e disarmati, come un capanno di paglia che prova ad opporsi a un tornado. Pensare al nostro rapporto con la tecnologia rischia di aprire una nuova, lunga riflessione. Per cui mi limito a questo: dobbiamo migliorarlo, il nostro rapporto con la tecnologia. Ma, mi viene da aggiungere, la tecnologia deve migliorare il suo rapporto con noi.

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martedì 12 Novembre 2024