Intervista ad Andrea Gentilini, Direttore della Cooperativa sociale Punto d’Approdo
Sarebbe bello poter smettere di scrivere della violenza femminile, invece è un tematica talmente attuale da non poterci permettere d’ignorala. Nel 2020 si registravano in Trentino 391 denunce e 84 provvedimenti di ammonimento: 475 casi in totale solamente in provincia di Trento. A tali dati, un’allarmante statistica aggiungeva che solo il 10-12% delle donne vittime denuncia i propri aggressori. Il 90% dei casi sono quindi storie non raccontate, nascoste agli sguardi indiscreti e quindi, per i più, inesistenti. A conoscere bene queste problematiche è la Cooperativa sociale “Punto d’Approdo”, che dal 1986 ospita donne in difficoltà.
Cosa offrono le vostre strutture e quante sono in totale?
Abbiamo due case di accoglienza a Rovereto: una per donne sole, chiamata “L’approdo”. La seconda invece è la casa “Fiordaliso”, dedicata a mamme e bambini. Da noi di solito si arriva “inviati” dai servizi sociali e si intraprende un percorso di aiuto e sostegno. Una fetta di queste persone, sono donne con un passato di violenza. La violenza fisica è solo una delle possibili esplicitazioni di quella di genere: ci sono anche quella economica, psicologica o lo ‘stalking’. I media segnalano tendenzialmente quegli episodi ritenuti più eclatanti, che alle volte tragicamente culminano nel femminicidio. Altrettanto dure, difficili e diffuse sono tuttavia anche le violenze psicologica o economica.
Oltre ai casi di violenza, quali sono i motivi che porterebbero una donna ad “approdare” in una delle vostre strutture?
Non possiamo trovare un target: ogni storia è a sé. Posso tuttavia fare alcuni esempi generici: potrebbe essere ed esempio sopraggiunto un momento di difficoltà psicologica dopo una separazione complicata o, ancora, un momento di depressione. Sarebbe più facile per me dire chi invece non accogliamo, come per esempio persone con problemi di tossicodipendenza, poiché vi sono strutture competenti a loro dedicate. Grazie all’aiuto di esperti come lo psicologo, si crea un vero e proprio progetto cucito ad hoc sulla persona, per sostenerla ed aiutarla. Non è possibile elaborare l’identikit della donna “tipo”: noi le definiamo “semplicemente” persone in difficoltà.
Chi stabilisce quando il percorso è concluso?
Quello lo si decide assieme. Quando una ragazza arriva al “Punto d’Approdo” è un po’ come se stesse firmando un contratto: vogliamo che si affidi con serenità agli educatori e che espliciti la propria voglia di tornare a vivere. Il percorso da fare non ha meramente a che vedere con quanto gli esperti propongono ma anche e soprattutto con le risorse che quelle donne già hanno: tutti noi, anche nei momenti più bui delle nostre esistenze, possediamo degli strumenti che a volte scordiamo di avere. Sta a noi cercare di rivitalizzarli, nel tentativo di recuperare la fiducia in noi stessi.
Il termine contratto mi piace molto. Sottolinea l’impegno che è necessario mettere (e soprattutto promettersi) per riabbracciare la propria vita. Concluso il percorso, il vostro supporto continua anche poi?
È proprio così: un progetto individualizzato nel quale è però fondamentale che le ragazze facciano la loro parte. Le aiutiamo non soltanto da un punto di vista psicologico ma anche nell’ottica d’un futuro rientro nel mondo di tutti i giorni. Abbiamo un laboratorio sociale chiamato “Le Formichine”, per fornire (in alcuni casi) dei prerequisiti lavorativi. In altri casi invece partiamo dalla sistemazione del curriculum ed aiutiamo nella ricerca del lavoro inviando delle domande. Le accompagniamo quindi anche oltre la semplice accoglienza, verso l’autonomia di vita, fiduciosi che ce la possano fare.
Approfondimenti
Twitter:
lunedì 13 Gennaio 2025