Internet, l’inquinamento c’è ma non si vede

Foto di Markus Spiske
Da qualche decennio la nostra quotidianità viene costantemente plasmata e rimodellata dal progresso tecnologico. E-book, e-mail, smart working, streaming, cloud… nel tempo molte nostre azioni si sono “dematerializzate”, dandoci forse l’impressione di pesare meno sull’ambiente. Sì, impressione, perché se è vero, ad esempio, che leggere un e-book o spedire una e-mail sottrae molti alberi alla ghigliottina e che lavorare in smart working riduce la circolazione di veicoli inquinanti, è altrettanto vero che la questione è molto più complessa – e meno idilliaca – di così. In altre parole, il fatto che il web sia, nella nostra percezione, immateriale non significa che sia sostenibile, anzi. Prima di tutto perché immateriale non lo è affatto: anche internet ha un domicilio fisico, ossia gli immensi ed energivori server dislocati in tutto il mondo che ne permettono il funzionamento.
Stabilire quanto inquina internet è possibile e per farlo si parla di carbon footprint, ovvero il parametro che determina l’impatto ambientale – in termini di immissione di gas serra e quindi, principalmente, di CO2 – di un’attività o un prodotto lungo tutto il suo ciclo di vita. Al netto di tutta l’anidride carbonica emessa per produzione, distribuzione e smaltimento dei dispositivi tecnologici, anche la sola attività online è causa di CO2. L’azienda italiana CDiN ha calcolato che ogni giorno, in media, l’attività online di ciascun individuo – tra film e musica in streaming, mail e messaggi, videochiamate, social network o semplice navigazione web – emette 13 kg di CO2, la stessa di un’auto che percorre 50 km. Sembra incredibile, ma dobbiamo sforzarci di pensare che ogni anche marginale attività online come controllare i social scatena un invisibile scambio di dati tra il nostro dispositivo e i server dati dislocati nel mondo, che per alimentarsi necessitano di ingenti quantità di energia, oggi ancora prodotta in larga misura da combustibili fossili.
Ma non finisce qui: internet ha anche sete, molta sete. Una ricerca dell’Imperial College di Londra ci da un’idea dell’importante quantità d’acqua richiesta dai contenuti digitali: quando guardiamo un film in streaming consumiamo 100 litri d’acqua, 200 se scarichiamo 1 GB di dati e “solo” 20 per una diretta sui social network. Perché? I server dati utilizzano l’acqua per raffreddarsi: uno di dimensioni medie consuma la stessa quantità d’acqua di due campi da golf di circa 70 ettari ciascuno. Non a caso Facebook nel 2013 ha spostato i suoi server a nord della Svezia per sfruttare le naturali basse temperature, nel 2020 Microsoft ha posizionato molti dei suoi server nel mare scozzese per approfittare delle sue fredde acque e Aruba, in Italia, impiega sistemi di raffreddamento ad aria. Tuttavia, ancora molto rimane da fare, anche a livello individuale.
Se mollare tutto e tornare al mondo prima di Internet è oramai qualcosa di puramente irrealistico, con maggior consapevolezza del problema tutti possiamo sforzarci di limitare i danni ambientali derivati dalla nostra vita digitale. Ecco alcuni esempi di buone pratiche che chiunque può adottare da subito per combattere l’inquinamento digitale pur rimanendo connessi: navigare attivando l’anti-tracciamento, che blocca il continuo flusso di dati a scopo meramente pubblicitario; privilegiare il download allo streaming, limitando così a una sola volta l’accesso ai dati ospitati nei server; sfruttare i “preferiti” del proprio browser per i siti che consultiamo di più, evitando continue ricerche generiche che aumentano inutilmente lo scambio di dati; e infine bloccare la riproduzione automatica dei video, molto energivori oltre che molesti.
Approfondimenti
Twitter:
venerdì 28 Marzo 2025