Estetica, simmetria e déja-vu: i tre cliché de “La trama fenicia”
C’è qualcosa di profondamente alieno, e al tempo stesso stranamente familiare, nel nuovo film di Wes Anderson, La trama fenicia, al cinema da maggio 2025. Una dolce vertigine di straniamento, come se ci si svegliasse dentro una cartolina illustrata anni ’50 dalla quale è quasi impossibile uscirne. In questo torpore quasi onirico, i colori pastello anestetizzano lo sguardo, mentre una simmetria ossessiva e inquadrature iper-curate si affacciano su un mondo surreale fatto di lande desertiche, dimore opulente e paesaggi remoti.
Eppure sembra tutto già visto e rivisto, o no? Anche qui il cliché andersoniano – quel controllo assoluto dell’estetica- torna a farsi sostanza narrativa, rimpolpando una trama che avanza a scatti, incerta, su due piani di lettura: quello materiale del potere e quello più rarefatto, quasi spirituale, delle intenzioni. Il linguaggio visivo riecheggia di riferimenti cinefili – da Hitchcock a Welles – e rivela un’autorialità maniacale, affascinante ma distante.
A tenere insieme l’intricata matassa del film è un ensemble di volti noti e di tutto rispetto: da Benicio del Toro a Tom Hanks, passando per Scarlett Johansson. Interpreti eccellenti nei panni di personaggi volutamente monodimensionali, bloccati in una fissità quasi liturgica, ma attraversati da un’evoluzione silenziosa. Zsa-Zsa Korda è un magnate solitario, sopravvissuto al suo sesto incidente aereo, inseguito da un governo goffo, con a suo fianco la figlia Liesl – novizia convinta che il padre sia coinvolto nella morte della madre – e l’ambiguo entomologo Bjorn Lund. Tutti loro si muovono all’interno di un labirinto di aforismi e agiscono secondo logiche ambigue, trasversali. Ma proprio lì si aprono i contrasti: spirituale e materiale, quiete e violenza, affetto e freddezza.
Contraddizioni che guidano in una metamorfosi lenta e provocatoria. Caposaldo della trama è il paradosso che qui si accende di un vivido rosso porpora – come il colore delle budella fuori dal completo impeccabile di Korda dopo l’ennesimo incidente aereo – e si incarna in strani accordi finanziari sotto forma di partite di pallacanestro con i membri del Consorzio di Sacramento e il principe d’Egitto Farouk. In questo trambusto di vicende, in cui il surreale si fa al contempo pregio e difetto del film, Anderson non racconta mai in modo diretto: affida tutto alle immagini – sconnesse e ipnotiche – lasciando allo spettatore il compito di oltrepassarle, di leggerci dentro. Anche se, a pensarci bene, il vero significato ce lo lascia in bella vista per tutto il tempo: una critica aspra e pungente all’oligarchia, al capitalismo e alla crisi dei valori. Ma a tutto c’è una soluzione.
Il rapporto con la figlia, infatti, diventa per Korda il vero antidoto contro una fine miserabile e solitaria. Il finale è sobrio, quasi dimesso, ma intenso: un elogio alla vita modesta, fatta di relazioni autentiche e cose semplici. Forse l’unico lusso davvero insostenibile, in un mondo costruito per chi ha tutto tranne che pace.
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mercoledì 2 Luglio 2025