Serie tv e film crime: serve a informare o solo a intrattenere?
Forse abbiamo interpretato male le parole di Nietzsche quando, in Così parlò Zarathustra (1883), diceva: «L’uomo deve diventare migliore e più cattivo. […] Giacché il male è la migliore energia dell’uomo». In effetti ci siamo parecchio discostati dall’idea che il male, parte dell’esperienza umana, possa essere trasformato in forza, conoscenza e crescita superando la morale convenzionale.
Oggi, infatti, il ritratto del criminale ha assunto un’aura magnetica: spaventa, seduce, cattura. Questa fascinazione risponde a un bisogno profondo, quasi ancestrale: comprendere ciò che è oscuro per neutralizzarlo, controllarlo, persino redimerlo. Il professor Coltan Scrivner, dell’Università di Aarhus, spiega che l’interesse per il crimine ha radici evolutive, aiutandoci a sviluppare strategie di sopravvivenza.
Lo confermano anche Wilson e Herrnstein nel loro celebre studio Crime and Human Nature (1985). Serie true crime e noir psicologici funzionano come meccanismi di “coping emotivo”: permettono, cioè, di sperimentare tensione e adrenalina in uno spazio sicuro. Come, ad esempio, quello del divano dal quale gli “armchair detective” – così li definisce lo psicologo David Canter – traggono soddisfazione nel risolvere casi ed enigmi prima che a farlo sia la polizia in tv.
Insomma, c’è chi indaga dal divano e chi addirittura si innamora. Infatti, quando attori giovani e magnetici interpretano criminali reali e la narrazione ne esalta la bellezza conturbante, si estetizza il male: l’orrore sfuma, l’atto si vanifica, e chi lo ha compiuto finisce per essere celebrato.
Georges Bataille, filosofo francese, riassumerebbe con: «Cosi come l’orrore è la misura dell’amore, la sete del male è la misura del bene»1. E in effetti non passano certo inosservati Zac Efron nei panni di Ted Bundy, Evan Peters in quelli del cannibale Jeffrey Dahmer, e tutti quei criminali ormai iconici e inquietantemente affascinanti: da Christian Bale in American Psycho ai recenti Nicholas Chavez e Kooper Koch nei ruoli dei fratelli Menendez. Tutti accomunati da un carisma magnetico, capace di trasformare i volti del male in oggetti di culto pop.
Ma ecco che la conseguenza è un fenomeno ancora più inquietante: l’hybristophilia2, l’attrazione erotica verso chi ha commesso atti violenti. Ted Bundy, Charles Manson e Richard Ramirez sono solo alcuni dei tanti criminali che hanno ricevuto lettere d’amore e persino proposte di matrimonio. Insomma, non è più solo cronaca: è business.
Piattaforme come Netflix, HBO e Prime Video investono milioni in docuserie e fiction che mettono al centro serial killer e criminali, spesso riducendo le vittime a semplici comparse. Vien da chiedersi se il danno sia la desensibilizzazione di un male, non percepito più come reale. Così, dietro le denunce di molte famiglie delle vittime, che accusano le piattaforme di monetizzare tragedie senza consenso, e un mondo sempre più assuefatto dai crimini, si fa strada una domanda inevitabile: raccontare il male serve a informare o solo a intrattenere?
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sabato 22 Novembre 2025