La pratica dei figli d’anima in Sardegna
In Sardegna esiste o è esistita una pratica molto particolare. Con l’espressione fillus de anima la lingua sarda indica una tradizionale pratica di affido di uno o più bambini ad adulti appartenenti o meno al proprio nucleo familiare, da parte di uno o entrambi i genitori naturali. L’usanza, radicata e ancora praticata con una certa frequenza almeno fino al 1975, anno dell’introduzione del nuovo diritto di famiglia, si inquadra in quelle forme di solidarietà familiare precedenti alla codificazione dei moderni istituti giuridici tutelanti il minore, come l’adozione o l’affido legale. La decisione di far crescere un bambino all’interno di un nucleo familiare diverso da quello di nascita prendeva sempre le mosse da una condizione di difficoltà presente nel nucleo di origine, di ordine materiale, economico, relazionale o sociale. Bisogna escludere da quest’ordine di difficoltà la perdita di uno dei genitori.
L’affidamento ad altri era sempre consensuale e non prevedeva l’intervento di una parte terza, istituzionale o informale, in qualità di autorità super partes: si trattava quindi di un accordo tra le parti, secondo un patto privato. L’accordo era probabilmente preso in forma orale, in quanto non si hanno testimonianze di accordi scritti.
In tutti i casi di filiazione d’anima, gli adulti che accoglievano il bambino erano persone che non avevano figli propri.
La famiglia accogliente garantiva al bambino migliori condizioni di vita, quindi un vantaggio materiale, anche in una prospettiva futura. Infatti, uno degli aspetti cruciali era quello dell’eredità: il figlio d’anima diventava spesso erede testamentario dei propri affidatari. Si tratta dell’unico elemento di riconoscimento “formale” del legame. In definitiva le famiglie stipulavano una sorta di patto in cui era implicita l’idea di scambio. Da un lato la famiglia accogliente garantiva al minore migliori condizioni di vita, in alcuni casi estendibili in modo più o meno diretto alla famiglia d’origine. Dall’altro vi era la soddisfazione di un bisogno personale e sociale di genitorialità per coloro i quali, non avendo figli, accoglievano il bambino. Nella cultura sarda tradizionale, infatti, il non avere figli era considerato una disgrazia, sia per la donna che per l’uomo.
Ulteriore caratteristica ricorrente tra i fillus de anima era il mantenimento dei rapporti con la famiglia d’origine, sebbene con modalità di contatto e frequenza differenti da caso a caso. Infine, nonostante la famiglia accogliente esercitasse pienamente le funzioni genitoriali e spesso tra gli adulti e il bambino si instaurasse un legame affettivo profondo e significativo, comunque veniva mantenuta la lealtà verso il nucleo d’origine, simbolicamente espressa nel fatto che agli affidatari non veniva mai attribuito l’appellativo di mamma o papà.
Approfondimenti
Twitter:
venerdì 26 Dicembre 2025