May Nam è un musicista italiano di stanza a Berlino, attivo da diverso tempo con le proprie produzioni elettroniche. A giugno 2015 è uscito il primo album, dopo l’esordio con l’extended play Albatrost, intitolato Anacol Jut (ascoltalo qui) . Ma chi meglio dell’artista in persona può introdurci al proprio mondo fatto di suoni, colori e strane melodie composto nella maniera più originale possibile?
1. Ciao May Nam! La prima e fondamentale domanda che si fa ad ogni artista è chiedere di presentarsi: chi sei? Da dove vieni? Dove vai? O più semplicemente, senza cadere nel trascendentale: quando e come nasce il progetto May Nam?
Sono nato a Schio, una valle vicentina sotto le Prealpi: boschi, campi di mais e fabbriche metallurgiche e tessili, cattolicesimo hardcore e cultura dell’automobile, cineforum con film inglesi doppiati e una commovente comunità di ghanesi Joie De Vivre che polleggia di fronte a uno shop dove trovo il burro di karitè, non-fake plus umanità candida con la pelle nera e la voce super loud. Ho anche un rapporto di sangue e cuore e immaginabilia ricordosa con la Sicilia, dove porto spesso i muscoli e le cuffie. Non so dove vado, ma so che è verso la morte, quindi vorrei cercare di andarci il più lanciato possibile. La roba come May Nam c’è da qualche anno. Suono da sempre, ma mi è servita una serie di badilate sulle zanne per metter voglia di mostrare agli sconosciuti la mia solitudine.
2. La tua musica è tra le più innovative e originali del panorama sperimentale italiano: quali sono i tuoi artisti di riferimento, le tue influenze? Ti ispiri a qualcuno o qualcosa quando scrivi un pezzo?
Capisco che questione poni con aggettivi come “innovativo” e “originale” e ti ringrazio molto avec abbraccio perché ti sento vicino quando mi dici questo. Nondimeno, se penso più del bastante alla mia vita, mi viene impossibile riconoscere tout court come Originale la roba che faccio, perché gran parte del modo che ho di comunicare (quindi anche quello musicale) è conseguenza di Ripetizione & Ossessione verso i personaggi di cui mi innamoro. Diventano le mie giornate per stagioni e lustri. “Rubo” e imito tantissimo, dalle parole di lingue non mie, gli intercalare delle voci delle persone, i gesti e le forme. Tutti questi elementi sono presenti in musica, e la cosa me gusta mucho. Il fatto è che forse ho reiterato gli ascoltoni di un tot di gallate differenti, da Cristina D’Avena ai Black Sabbath, Tutto Mike Patton e Aphex Twin, Beach Boys e Arvo Part, Animal Collective e Danny Elfman, John Fahey e Merzbow e Amon Tobin. Quando tiro fuori dei momenti-suono che adoro e su cui mi prostro e affido sinceramente slegandomi dall’esterno, in un secondo momento mi è comunque inevitabile ricondurli e paragonarli a suoni e mondi a cui avevo già affidato tanto delle mie energie e delle mie memorie. Quindi mi viene molto ardua potermi definire “originale” senza colarmi una tazza di diarrea bollente sulla testa. Capisco invece che per te sia la parola giusta.
Comunque adoro i giri melodici distesi, mi piace il casino, mi piace il silenzio e in testa c’ho mille voci che cercano, a volte fallendo, di volersi bene. Questa è l’ispirazione dietro, suppongo.
3. Rimanendo legati alla tua musica: come componi quelli che definirei dei melting pot di suoni e melodie che sono la base e la voce dei tuoi pezzi?
Registro un macello di chitarra (sarebbe da sempre il “mio” strumento) e tastiera per le linee melodiche-guida, poi punzo intorno qualche ritmo. Insomma, fò il disegno. Poi coloro tutto coi colori che trovo, passandoli per una serie X di effettistica e schizzofisica messami in dote dal progresso techno dell’uomo. Utilizzerei molto il “campionamento” e i “loop”, ma non sono definizioni che nel 2015 mi convincono. Mi viene difficile fare un distinguo tra approccio acustico e approccio elettronico, je suis che appena c’è di mezzo il filo elettrico allora parliamo già di “elettronica”. Utilizzo difatti moltissimi suoni senza-fili, soprattutto strumenti a corda. Registro e arpeggio per ore la chitarra acustica e da lì si creano infiniti timbri e poi altri suoni amici si aggiungono. La camurrìa dei suoni acustici dentro il Mar MediterrAbleton.
4. Come già anticipato, tu vivi a Berlino dopo aver comunque vissuto anche in altre città europee: la tua musica ha risentito di questa lontananza dall’Italia?
La mia musica e la mia vita non li vedo come termini di due concetti diversi. Lasciare il Veneto per andare a vivere in altre lingue e sistemi è l’evento che ha firmato un ciclo della mia vita. È la mia vita. Dentro l’abbraccio alla mancanza fisica delle mie origini ho trovato travaglio e ristoro. Una grandissima energia di cosette che svolazzano in aria e raccontano storie sceme e irrisolte. Mi mancano costantemente i percorsi e gli orizzonti del posto dove sono cresciuto, mi manca parlare la lingua con cui sono cresciuto nel posto dove sono cresciuto. La fisicità assente della mia storia italiana mi convoca quasi ancora di più al gridare qualcosa che possa idealmente ricrearla ed evocarla, attivarla. La musica la percepisco come una cosa molto infantile e io fui infante in un paio di Italie. Vivo però foresto da molti anni e penso di aver assorbito un po’ d’acqua di ambienti per me “nuovi”. Quindi sì insomma ecco.
5. Resto in tema emigrazione: come si vive la condizione di musicista indipendente in una città come Berlino, che a me arriva sempre come viva e accogliente? È uno specchietto per le allodole o le cose sono davvero differenti rispetto alle nostre Bologna, Milano e Roma?
Non conosco quelle realtà musicali italiane perché non conosco le grandi città italiane. Di Berlino posso dire che c’è la grossa sensazione che ogni soggetto schizzoide abbia possibilità di esprimersi degnamente. Qui c’è una grossa ricchezza e anche un grosso disagio sociale, è una dualità che fa molto bene alla tolleranza e al contesto creativo. Si ascolta e si offre tanta-tanta-tanta musica perché qui ci sono tante-tante-tante entità diverse e si ha bisogno di tante colonne sonore. Tutto è poi molto enfatizzato: è un cittadone con una storia recente assurda, quando le cose si muovono fanno ancora un gran sbadabàm. Lo stato sociale è forte e il mitteleuropeo è anche un vichingo che nuota nudo nei laghi bevendo birra: il rispetto e sostegno al polleggio e alla stravaganza è molto alto. Ci vive una bella botta di gente che vien dai mari del sud; una apparente dolce e trasversale tolleranza delle origini è una delle vie giuste, se vuoi arrivare ad un contesto creativo forte.
6. Tornando a bomba al tuo disco: i nomi dei pezzi sono alquanto particolari: Fretka Domi; Puppy Tanz e Get Dudeskeit solo per citarne alcuni. Da dove hai preso questi nomi per questi pezzi e qual è il messaggio che vuoi portare col tuo disco?
Penso che uno dei mood consolidati con alcuni miei amici sia anche quello dello sfaso ironico da trip linguistico, banchetti di morfologia del segno e de-building. Le lingue mi sono sempre interessate come mapping e indice della accidentalità dei fenomeni; in quei frammenti di accidentale, nel momento in cui un essere umano molto basso e peloso emette un suono vergine X per riferire un oggetto Y, vedo poco utile un discorso scientifico solido e addosso ci sento comodo un vestito di incoscienza e trascendenza. Sapendo non benone una manciatina di lingue e sguazzando volentieri nella idiomistica e avendo trovato un umanesimo nietzschano di persone intorno che mi permette di condividere tutto questo, mi vien naturale portarmi dietro questo gioco nelle lunghe storie che inizio con ogni traccia che creo. Negli stessi giorni in cui compongo, Vedo Gente E Diciamo Cose; tutte quelle cose me le porto sulla pelle e a volte ci tiro fuori un titolo. Altre volte sono giri più nascosti, tipo il titolo Puppy Tanz, che per un paio di motivi è un pezzo costruito anche sul ricordo di mio padre che balla con me cinquenne in soggiorno il primo pezzo che mi folgorò in assoluto e che mi attivò una coscienza musicale (un pezzo bluegrass anni ’70 di David Bromberg). Tanz è la terza persona di “ballare” in tedesco, Puppy è tipo “cucciolo” in inglese. Papi è anche l’unico modo con cui ho sempre chiamato mio padre. Insomma, mio papà che balla o il ballo del papi (e/o del cucciolo = io). Hai voglia a poter capire fino in fondo a cosa mi sto riferendo! Ma non penso che abbia molta importanza. Fino a un decennio fa, ho sempre cantato suoni random sotto le canzoni in inglese. So a memoria Ruby Tuesday dei Rolling Stones cantata nella mia non-lingua, è bellissima, piena di “d” e “t”. Son suoni, son segni, hanno la pretesa di arrivare a tutti e a nessuno. Chiaro che a cogliere certi riferimenti dei miei titoli vien facile dire due stronzate sulle lingue indoeuropee eccetera. Ma anche chissene.
7. Ringraziandoti per il tempo concesso a rispondere alla nostre domande, ti lascio le ultime parole: che siano un semplice saluto, un consiglio, un avvertimento. Fai tu! E grazie ancora! Alla prossima!
Ringrazio io te perché le persone che si avvicinano ad altre persone solo per il gusto-di sono una cosa preziosa, priva di grassi di maiali morti e di materialismo. Sgancio anche un saluto di pace ecumenica là fuori.
mercoledì 11 Settembre 2024
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