Nell’era del truciolato Ikea, della chincaglieria made in China, di piatti e posate usa e getta; nell’era della velocità e dell’amore per il nuovo, il nuovo iPhone, i nuovi zigomi, la macchina nuova, gli occhiali nuovi, ho scoperto il kintsugi (金継ぎ), o kintsukuroi (金繕い).
La chiarissima traduzione letterale riporta al “riparare con l’oro”. La pratica è giapponese e consiste nel rinsaldare gli oggetti rotti con materiali preziosi: tutti i frammenti di un vaso andato in frantumi vengono ricongiunti con un liquido o una lacca con polvere d’oro e ritornano nelle fattezze originali, ma con una differenza. La ferita è lì, in primissimo piano, talvolta pacchiana, dorata, impattante.
Nella cultura orientale le cicatrici restituiscono valore all’oggetto, lo rendono unico. In Occidente una cosa o è intatta o è rotta. E se è rotta o è possibile ripararla come se non fosse mai successo nulla oppure non vale la pena tenerla. Meglio una nuova.
Ma tra integrità e rottura c’è la ricomposizione, c’è l’idea che dall’imperfezione possa nascere una forma maggiore di perfezione, estetica e interiore.
«Tra la partenza e il traguardo, nel mezzo c’è tutto il resto. E tutto il resto è giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno è, silenziosamente, costruire. E costruire è sapere e potere rinunciare alla perfezione».
[Foto di Laura Brownfield]
domenica 8 Settembre 2024
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