Davanti ad un caffè in una giornata di sole di metà marzo abbiamo fatto una chiacchierata con Silvia de Nart, classe 1998, che da aprile a luglio 2022 è stata in Colombia come volontaria a fianco di Operazione Colomba. È partita da sola, per un villaggio nella comunità san Josè de apartadò nella regione di Antioquia: un posto fertile e vicino al mare, quasi al confine con Panama, molto ricco a livello minerario e circondato dalla foresta amazzonica. Con la stessa ONG Silvia nel 2021(luglio-agosto) era già stata in Libano. Abbiamo discusso dell’importanza di portare aiuto concreto a migliaia di chilometri da casa, di come il volontariato stia in equilibrio tra la mano tesa a chi ne ha bisogno e la propria crescita personale, lontano però dall’ assistenzialismo e dalle operazioni-vetrina.
Cos’è Operazione Colomba?
È un corpo civile Nonviolento di Pace. Un organismo, nato nel 1992, che raggruppa persone civili e opera in zone di conflitti a fianco delle vittime di guerra, per arrivare ad una mediazione non violenta. Opera in tutto il mondo e ha sede a Rimini e oggi è presente soprattutto in Grecia, Palestina, Libano, Cile, Colombia, con alcuni progetti spot sulla rotta balcanica. Ma Operazione Colomba è aperta ad accogliere nuove necessità, come quella Ucraina più di recente.
La cosa più bella e la cosa più brutta che hai visto in Colombia.
La cosa più bella che ho visto e vissuto è il senso di comunità e di appartenenza in cui credono le persone. Lì prima viene la collettività, la sopravvivenza del gruppo, e poi l’individuo. Ogni giorno le persone si uniscono consapevolmente per salvaguardare la loro terra, la foresta, l’indipendenza alimentare. C’è un senso comune che da noi manca. Mi ha emozionata e mi ha fatto capire che un altro modello è possibile.
La cosa più brutta, invece, è l’oppressione quotidiana: ogni giorno c’è una lotta da portare avanti. Sì, non ci sono armi, ma c’è comunque la resistenza non armata, c’è l’esigenza continua di difendersi, l’idea di essere minacciati. Mi è capitato di visitare un terreno in cui è stato perpetrato un massacro, un luogo ricco di memoria per la comunità. Ci sono ancora delle famiglie che vivono lì ed è chiaro che tutti, anche i bambini, sanno di essere parte di un passato doloroso che in parte è ancora presente. In quel luogo ho vissuto forse il momento più forte e incisivo: è difficile vedere il dolore degli altri.
Si dice che il volontariato serve a chi lo riceve ma anche a chi lo fa. Cosa ne pensi?
Dipende dal tipo di volontariato e anche da chi lo fa, ovviamente. Di certo non si dovrebbe cadere nell’assistenzialismo. La mia presenza ha permesso ai membri della comunità di potersi spostare sul territorio con più sicurezza: nel caso di Operazione Colomba una rete di volontari serve ed è incisiva, e questo è un dato di fatto. D’altro canto, io mi sono sentita arricchita, però non vale la regola del lava coscienza ‘ho fatto la mia buona azione’ e neanche il ‘vieni con noi e fai una bella esperienza’. Quel tipo di volontariato dà valore solo all’esperienza di chi lo pratica e niente di più: il volontariato dovrebbe nascere dal credere autentico in quel che si fa. Se così accade, allora chi lo fa riceve qualcosa di grande e allo stesso tempo aiuta a cambiare le cose.
Da cosa nasce cosa. Ti piacerebbe tornare all’estero?
Sì, mi piacerebbe tornare in Colombia dove ho stretto relazioni, e pure in Libano. Il più grande progetto sarebbe però la Palestina, dove ora si può tornare ad entrare. Vedremo.
Cosa hai imparato dalla tua esperienza e cosa ti porti a casa?
L’attaccamento alla terra. Il nostro modo di vivere non è paragonabile a quello della comunità in cui sono stata, ma ho compreso l’importanza di valorizzare il territorio in cui viviamo, le nostre montagne, e di riscoprire il senso della nostra comunità.
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lunedì 10 Febbraio 2025