Questo sito utilizza cookie tecnici e, previa acquisizione del consenso, cookie analitici e di profilazione, di prima e di terza parte. La chiusura del banner comporta il permanere delle impostazioni e la continuazione della navigazione in assenza di cookie diversi da quelli tecnici. Il tuo consenso all’uso dei cookie diversi da quelli tecnici è opzionale e revocabile in ogni momento tramite la configurazione delle preferenze cookie. Per avere più informazioni su ciascun tipo di cookie che usiamo, puoi leggere la nostra Cookie Policy.
Cookie utilizzati
Segue l’elenco dei cookie utilizzati dal nostro sito web.
Cookie tecnici necessari
Sempre attivi
I cookie tecnici necessari non possono essere disattivati in quanto senza questi il sito web non sarebbe in grado di funzionare correttamente. Li usiamo per fornirti i nostri servizi e contribuiscono ad abilitare funzionalità di base quali, ad esempio, la navigazione sulle pagine, la lingua preferita o l’accesso alle aree protette del sito. Comprendono inoltre alcuni cookie analitici che servono a capire come gli utenti interagiscono con il sito raccogliendo informazioni statistiche in forma anonima.
Prima parte6
cm_cookie_cookie-wp
Verifica l'accettazione dei cookie.
PHPSESSID
Identifica la sessione dell’utente tramite un valore alfanumerico.
Se il 2020 è stato l’anno dell’emergenza sanitaria Covid-19, il 2021 avrebbe dovuto essere l’anno della ripresa economica e, conseguentemente, del mercato del lavoro. Un incremento c’è stato, ma di certo non così significativo. L’anno scorso, invece, verrà ricordato come l’anno delle grandi dimissioni.
Le prime avvisaglie del fenomeno erano giunte dagli Stati Uniti: nell’autunno 2021 la Harvard Business Review aveva pubblicato l’approfondimento Who is driving the great resignation, dedicato all’esponenziale crescita nel numero di dimissioni dal posto di lavoro negli U.S.A.. “Nel mese di luglio 2021, quattro milioni di americani hanno lasciato il proprio lavoro. Il numero di dimissioni ha raggiunto il picco massimo in aprile e si è mantenuto stabile anche nei mesi successivi. A fine luglio si è raggiunto il record di 10,9 milioni di posti di lavoro vacanti”.
In un approfondimento più recente, questo numero sembrerebbe essere ulteriormente aumentato, raggiungendo un nuovo record: da maggio a settembre si erano dimessi complessivamente 20,2 milioni di lavoratori, molti dei quali impiegati nel settore del tempo libero e dell’ospitalità. In questo ambito il 6,4% dei lavoratori ha lasciato volontariamente il lavoro. I dipendenti maggiormente interessati dal fenomeno avevano un’età compresa tra i 30 e i 45 anni ed erano inquadrati in posizioni di livello medio.
Il fenomeno era inedito per le dimensioni, ma anche per la situazione paradossale che si è creata. L’incremento, infatti, avveniva in un momento in cui le imprese, in difficoltà nel reperire personale, si rendevano disponibili a pagare salari più alti.
Le cause delle dimissioni sono complesse e una di queste è riconducibile alla sindrome da burnout. Questo disturbo deriva il proprio nome dall’espressione inglese “to burn out”, “bruciarsi, esaurirsi”. Si tratta di uno stato di esaurimento sul piano emotivo, fisico e mentale, una forma di stress lavoro-correlato che può influire anche sulla sfera privata. In tempi di pandemie questo vale soprattutto per chi lavora in ambito sanitario, ma non solo.
Un numero elevato di dimissioni è stato registrato nel comparto informatico e tecnologico. In questo caso, l’andamento positivo del settore, potrebbe aver indotto molti ad abbandonare il precedente lavoro in un ottica di maggiore autonomia, flessibilità oraria e di maggiore guadagno.
Anche in Italia i dati relativi al secondo trimestre 2021 evidenziano un aumento considerevole del fenomeno. L’incremento è del 37% se paragonato con il trimestre precedente e addirittura dell’85% con il secondo trimestre del 2020.
Secondo l’Associazione Italiana della Direzione del Personale (AIDP), nei primi mesi del 2021 sono stati circa 770.000 i lavoratori con contratti a tempo indeterminato a dimettersi. Si tratta soprattutto di giovani di età compresa fra i 26 ai 35 anni, seguiti dai colleghi poco più anziani, fino ai 45 anni di età.
Le cause sono riconducibili alla ripresa del mercato del lavoro (48%), alla ricerca di condizioni economiche più favorevoli (47%), al desiderio di un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa (41%) e a maggiori opportunità di carriera (38%). Da segnalare che il 25% ha indicato tra le cause la ricerca di un nuovo senso di vita e che il 20% ha menzionato un clima di lavoro negativo.
“La verità è che i giovani non si accontentano più del primo lavoro che capita, cercano un contesto che possa essere accogliente, anche dal punto di vista etico, della sostenibilità e della responsabilità sociale. Le aziende devono adeguarsi al nuovo paradigma non solo per attrarre i giovani talenti, ma anche per trattenerli” ha spiegato Matilde Marandola, Presidente Nazionale AIDP.
La pandemia ha portato le persone ad interrogarsi rispetto al senso del proprio lavoro e della propria vita. Nella maggior parte dei casi, le risposte hanno indirizzato le persone al cambiamento. Chissà se le aziende saranno in grado di porsi le stesse domande ed attrezzarsi di conseguenza.
Twitter:
sabato 23 Settembre 2023