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Dizionario dell’ignavo

mangosi_20070224

Dicono che io sia affetto da ignavia: sarebbe a dire che non sono pronto, non sono solerte o così, almeno, suggerisce il termine originario latino.

Dovrei fare, ma non faccio perché non ne ho la forza psicologica. Alcuni parlano di a-bulia. Vogliono fare i dotti e darsi arie con etimologie pompose, nominando con fare sapiente l’alpha privativo e un verbo greco, ‘boulomai‘, cioè volere.

Stringi stringi, la storia è la stessa, solo la lingua d’origine è diversa: resto sempre uno che non è in grado di compiere atti di volizione. Quello che invece mi colpisce è l’idea di essere un indolente o, se vogliamo accontentare gli amanti del greco, un a-patico. L’alpha, in questo caso, mi priva non di volontà, ma di dolore!

Anche in latinoin-dolentia‘ è l’assenza di sofferenza. Non sono uno sfaticato, ma uno che, siccome non fa nulla, non prova neppure nessun patimento.

Eppure non sono in-felix, senza felicità, questo è l’aspetto sconvolgente della mia condizione. Contro il senso comune, l’interpretazione letterale del mio stato mi toglie le conseguenze negative del fare (la fatica fisica o quel soffrire che deriva dalla consapevolezza di aver agito erroneamente), ma non mi sottrae esplicitamente la soddisfazione dell’operare e del risultato che ne consegue.

Se mi parlassero di, che so, ingaudio, se quei dotti mi spaventassero con la diagnosi di aneudaimonia, neologismi che suonano minacciosi di per sé e che si fanno ancor più paurosi per il loro significato, ossia la mancanza di gioia, in quel caso, forse, mi metterei all’opera. Sì, credo che questa terribile prospettiva, la prospettiva dell’infelicità, mi aiuterebbe persino a ritrovare la boulè, la volontà che ora mi manca, perché al dolore si rinuncia volentieri, ma alla felicità no.

 Leggi anche:
Il-ludere, o del giocare con la lingua

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giovedì 18 Aprile 2024